di Angelo Di Marino
NAPOLI. Via dei Fiorentini. La strada è ancora lì. Il Pci invece no. Questa viuzza angusta e senza sole è a due passi dalla questura, a quattro dal municipio. Guarda timida verso la Medina napoletana, l’insediamento multietnico cresciuto nei secoli a ridosso del Rettifilo. Da questa parte i palazzi sono figli dell’era di Lauro, il sindaco che distribuiva pacchi di pasta agli elettori ad ogni campagna elettorale. Voto di scambio? No, era voto di fame. Nella viuzza dove tutti corrono freneticamente è nata una storia. Anzi, è rinata. E’ qui, nella sede del partito comunista napoletano, che Maurizio Valenzi gettò le basi per quella che fu la vera svolta a sinistra della Campania. Ed è qui che un giovane Bassolino già sgomitava mietendo incarichi e voti all’inizio degli anni ‘70. Da queste parti i volti di Berlinguer, Napolitano, La Capria, Rosi erano familiari.
Ora nel palazzotto per anni occupato dal Pci c’è un cantiere. Sul marciapiedi dove ci si fermava a parlare di politica anche fino a notte fonda, altro non c’è che una sfilza di motorini parcheggiati alla meno peggio e rigorosamente incatenati ai paletti scoloriti e tutti storti. Ed è proprio da qui che bisogna partire per capire in cosa si è trasformata la sinistra dalle nostri parti, sbugiardata e messa alla berlina dall’ennesima pagina grigia. Quella scritta da domenica sera ad oggi dai protagonisti delle primarie a Napoli.
Volgendo lo sguardo a destra si scorge già nitido il palazzo del comune. Somiglia a un fortino allo stremo. Ai suoi piedi qualche decina di dimostranti, difficile capire a che protesta la loro voce appartenga. Qui presidiare e manifestare è prassi quotidiana, c’è anche chi ci ha messo le tende e non certo in senso figurato. Il portone mezzo chiuso fa capire che gli ospiti sono poco graditi. E pensare che proprio in questo palazzo, tra scaloni di marmo e affreschi alle volte, si sono accese e spente le grandi speranze della sinistra.
Dopo la guerra, i puttani di Lauro e il ‘68, Napoli svoltò con Maurizio Valenzi, sindaco comunista sostenuto dai democristiani. Era il 1975. Per otto lunghi anni, quello che era innanzitutto un intellettuale di rango guidò la città appena uscita dall’incubo del colera. Furono gli anni del terremoto, del rapimento Cirillo, del terrorismo e degli omicidi di camorra. Proprio a metà degli anni Settanta, fu posata la prima pietra della nuova metropolitana. Voltandosi di scatto verso sinistra, ci si accorge che 36 anni dopo il cantiere della ferrovia sotterranea è ancora aperto, sventrando piazza Municipio dal Maschio Angioino al molo Beverello.
Furono necessari altri dieci anni, era il 1993, prima che la sinistra riprendesse quota in Campania. La vittoria di Bassolino sulla Mussolini ridiede nuova linfa a quello che nel frattempo si era trasformato in Pds, pur abitando sempre in via dei Fiorentini. Nello stesso anno e nello stesso giorno, Vincenzo De Luca diventava sindaco di Salerno. Era il 6 dicembre. La Campania aveva deciso di uscire da Tangentopoli così, affidandosi agli uomini del partito nato sulle ceneri del Pci di Berlinguer. A Napoli la giunta del socialista Nello Polese era stata travolta da Mani pulite, mentre l’arresto di Vincenzo Giordano, vero galantuomo e totalmente scagionato qualche anno dopo, aveva segnato Salerno. L’Italia vedeva in Di Pietro e nel pool di Milano i simboli della legalità. Era la vigilia della discesa in campo di Silvio Berlusconi.
Sono queste le radici di una pianta che adesso sembra avvizzita ed i cui frutti sono stati colti troppo presto, senza aspettare che maturassero. Di quella stagione è rimasto davvero poco. Solo De Luca è ancora in sella, anche se reduce dalla sconfitta di un anno fa alle regionali. La Iervolino invece è al capolinea, lei che è il sindaco meno amato d’Italia, come riferiscono sondaggi e statistiche. Ma si tratta di scampoli di fine stagione, visto che in questi ultimi 18 anni sono stati troppi gli errori compiuti in nome e per conto di personalismi sempre più esasperati, alimentati da un sistema diventato teorema e quindi applicato all’ennesima potenza. Dalla stagione della speranza e della rinascita a quella delle inchieste, degli avvisi di garanzia e degli scandali. Sullo sfondo la frantumazione della sinistra e la nascita di partiti avviluppati al potere e non più agli ideali ed alle ideologie, figli legittimi di progetti spartitori e non politici. Lontani anni luce dallo spirito che aveva sospinto i comunisti napoletani a trasformarsi da minoranza a gruppo di governo.
Arriviamo a passo svelto ai giorni nostri. Il Pd ormai evoca fantasmi e, almeno qui in Campania, continua ad affannarsi a somigliare al partito del predellino (naufragato anche’esso), nella spasmodica ricerca di alleanze impossibili che non fanno altro che allontanarlo dalla base, spingendolo verso quella borghesia indifferente e qualunquista che a Napoli, ormai da anni, si schiera a seconda delle convenienze del momento. E non è che altrove la situazione sia diversa. I democratici sono un complemento a Salerno, dove comanda De Luca che mai si sognerà di mostrare quel vessillo davanti al proprio pubblico. Da anni fa da solo, chiamando le sue liste con nomi che manco ricordano quello che dovrebbe essere il suo partito d’appartenenza. Questo ha di fatto appiattito il già strisciante partito, dimensionandolo e circoscrivendolo a poche riunioni conviviali, nelle quali si prende tempo in attesa di eventi. Che mai arrivano. E se De Luca, tra i fondatori del Pd, è presente come nessun altro sul territorio, il partito democratico è invece assente, anzi evanescente nelle strade come nelle fabbriche, negli uffici come nelle piazze.
Tornando indietro, riguadagnando la strada che da piazza Municipio porta di nuovo in via dei Fiorentini, ci si rende troppo facilmente conto che il tempo non si è fermato. E non ha aspettato che la sinistra si svegliasse di nuovo dal torpore che solitamente si avverte quando si ha la pancia piena. Le primarie di Napoli non sono che l’ennesimo segnale di un malessere che si è trasformato in patologia. La cura? Consumare un po’ la suola delle scarpe e venire qui: alzando lo sguardo si può ancora scorgere un vecchio manifesto elettorale del Pci. E’ sbiadito, ma resiste ancora. Forse è un segno del destino.
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pubblicato su “la Città” del 30 gennaio 2011
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