di Angelo Di Marino
In poco più di una settimana sono spariti due emblemi di questa città. Il primo è sportivo, quello della Salernitana che pure era scampato al crac di Aliberti. Offuscato dai debiti, il calcio in granata è stato costretto a dire addio alla serie C. Al pastificio Amato è toccata invece una sentenza definitiva e senza scampo: il fallimento. Un altro, forse l’ultimo pezzo della Salerno industriale se n’è andato, lasciando sole sul campo le truppe.
Il tutto accompagnato dal silenzio assordante dell’imprenditoria salernitana. Che si è guardata bene dal metter le mani sul pallone, assistendo col dovuto distacco all’inabissarsi del molino che tanto vanto ha dato a questa città. E’ la stessa classe manageriale che si rizela non poco quando ci si permette di dire che le zuffe associative, tanto di moda in questi giorni, sono del tutto fuori luogo.
Fatte le debite eccezioni (che ci sono, anche se poche), si tratta di una casta fatta più di cognomi che di nomi, spesso abile a trincerarsi dietro un passato glorioso e pronta a girarsi dall’altra parte nel momento giusto. Cioè quello in cui c’è da prendersi responsabilità e rischiare in prima persona.
Non possiamo quindi meravigliarci se tra le sette proposte giunte al Comune per la nuova Salernitana manco una provenisse da questa città. E neanche dobbiamo gridare allo scandalo se il pastificio Amato risultasse legato a doppio filo a un industriale siciliano, ancor prima che la sua storia finisse in un’aula della fallimentare.
Prevale ancora la maledetta logica del “non conta se lo faccio io, l’importante è che non lo faccia tu”. Un limite imbarazzante per una città che si professa europea.
pubblicato su “la Città” del 24 luglio 2011
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