di Angelo Di Marino
Sepolti dal fango. Non si può che sentire vicina la gente di Genova per l’ondata di morte e devastazione che sta segnando una terra schiacciata tra mare e colline, proprio come Salerno e tante altre città di mare del nostro ineguagliabile Paese. Sono per noi ancora vivide le immagini delle alluvioni di Sarno, Atrani, Montalbino, San Gregorio Magno, della tracimazione del Sele, delle frane che mai si cicatrizzano nel Cilento come nel Vallo di Diano. L’Italia è malata, ma soprattutto è vittima delle speculazioni e degli abusi, perpetrati con la complicità della cattiva politica, che l’hanno resa fragile e indifesa.
In questi giorni così difficili, dove la crisi non fa arrivare a metà mese buona parte degli italiani e nei quali si consuma l’ultimo lacerante atto del berlusconismo, ci arriva tra capo e collo l’ennesima conferma di quanto ormai non resti che affidarsi ai Santi (per chi crede) o al destino (per chi in chiesa non ci va) appena le nuvole mettono il broncio. Perché è di questo che stiamo parlando, della totale assenza di misure che, al di là della forza degli elementi, restituiscano ai nostri territori quella sicurezza per millenni garantita solo dalla natura e ormai stuprata dalla invasiva brutalità di speculatori e condonati.
E’ dalla tragedia del Polesine (anno 1951) che gli italiani tutti assistono impotenti, celebrando puntualmente il coraggio e l’abnegazione dei vigili del fuoco, dei soldati, dei carabinieri e dei poliziotti, degli uomini della Protezione civile, dei tanti volontari che a rischio della vita in questi decenni hanno tirato fuori dal fango migliaia di persone. Braccia e teste capaci di moltiplicarsi all’infinito, mentre sulle loro spalle c’era magari chi costruiva carriere dorate nei palazzi romani, trasformando le emergenze in imperdibili rampe di lancio per i propri interessi. Lo dimostrano le troppe inchieste aperte sulle ricostruzioni seguite ai terremoti e alle alluvioni, sulle strade mai costruite e sulle vie di fuga progettate solo sulla carta.
Volete un esempio? Il fango che ha sepolto i genovesi è frutto dello straripamento del Fereggiano, maggiore affluente del fiume Bisagno. La tremenda inondazione sarebbe stata evitata con uno scolmatore, termine tecnico che nasconde un tunnel lungo sei chilometri per il cui completamento servono 250 milioni. Peccato sia stato progettato più di vent’anni fa, precipitando subito dopo in un vorticoso giro di arresti, tangenti e sprechi per miliardi di vecchie lire, fino a scomparire negli angusti corridoi del Consiglio superiore dei lavori pubblici: del nuovo progetto (e dei soldi) si sono perse le tracce nel 2008.
E cosa dire di casa nostra, dove tremiamo ad ogni pioggia, temendo una nuova Sarno. L’altro giorno il sindaco di San Gregorio Magno ha lanciato un appello straziante: ad un mese dai nubifragi, il raccolto dei campi è ancora sepolto dal fango. C’è stato chi ha chiesto lo stato di emergenza per quelle zone che ricadono anche nel territorio di Buccino. Sos che serviranno a poco, visto che è impossibile farsi ascoltare da chi si professa sordo. Ecco, basterebbe questo per capire quanto sia stata assente e complice la politica in questi lunghi anni, segnati indelebilmente dai governi di Berlusconi e Prodi. A quanti, fedelissimi compresi, ora pretendono un passo indietro dall’uomo tristemente celebre per il “Bunga bunga” e che per 17 anni ha promesso un’Italia migliore, andrebbe ricordato che è per l’incuria amministrativa palesemente dimostrata e certificata ormai da tutto il mondo che merita di tornarsene ad Arcore con biglietto di sola andata, e non certo per favorire quel “ricambio generazionale” che puzza di spartizione lontano un miglio.
Berlusconi, col suo governo del non fare, ha però un merito. Quello di aver unito veramente l’Italia da Nord a Sud, alla faccia di Bossi e dei leghisti. Siamo tutti travolti dallo stesso fango. E almeno una volta al giorno, da Milano a Reggio Calabria, quando le nuvole turbano il cielo, ripetiamo un vecchio ritornello che non ha inflessioni dialettali: “Piove, governo ladro…”.
pubblicato su “la Città” del 6 novembre 2011
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