Russia, doping di Stato. Olimpiadi a rischio per Mosca

Le russe Savinova e Poistogova alle Olimpiadi di Londra 2012Le russe Savinova e Poistogova alle Olimpiadi di Londra 2012

Intere generazioni di sportivi cresciute a base di ormoni e steroidi. Fisici sformati ma potenti, spesso inumani. Sessi incerti, giovani vite spezzate dalla depressione subito dopo l’addio alla pratica attiva. Donnone e omoni con la maglia rossa della Cccp o blu della Ddr, quella Germania Est che negli anni ’70 e ’80 era il vero e proprio laboratorio del doping di Stato. Sembrava uno scenario del passato, una di quelle cose che vive solo nella memoria degli appassionati dai 50 anni in su, cresciuti con le telecronache in bianconero dei giochi olimpici di Monaco, Montreal, Mosca. E invece eccolo tornare, come un incubo.

Il doping di Stato formato terzo millennio è tutto in un dossier di 323 pagine firmato e controfirmato dagli esperti della Wada, l’agenzia mondiale antidoping, che punta l’indice senza mezzi termini contro la Federatletica russa. Pesanti come un macigno le accuse: doping come prassi e, per giunta, utilizzato, insabbiato e protetto da chi avrebbe dovuto combatterlo. Ecco perché la Wada, acronimo che in inglese sta per World Anti-Doping Agency, dal Canada chiede di sospendere la Russia per due anni da tutte le competizioni. A partire proprio dalle Olimpiadi, quelle di Rio de Janeiro dell’anno prossimo. Un pugno in faccia di quelli che fanno davvero male e che rischiano di sconvolgere il già fin troppo precario ecosistema della politica sportiva, minato e minacciato dagli scandali del calcio (Blatter e corruzione alla Fifa, giusto per citare il peggio) e dalla dilaniante guerra del potere che, in un’epoca di diritti televisivi e sponsorizzazioni selvagge, equivale alla gestione di risorse di denaro che possono risollevare o abbattere definitivamente l’economia di un Paese a seconda della loro somministrazione.

Mosca respinge le accuse e parla di iniziativa con «motivazione politica», per una vicenda che peraltro non sembra confinata alle istituzioni sportive. Nel rapporto della Wada, infatti, si citano i servizi segreti russi e addirittura il Cremlino, reo addirittura di «intimidazioni dirette» verso il laboratorio antidoping. Secondo Dick Pound, uno dei titolari dell’inchiesta durata quasi un anno, emerge «uno scandalo più grave di quanto si pensasse» perché consapevolmente «si sono fatti gareggiare atleti che dovevano essere fermati a causa della loro positività».
Nello specifico, la Wada sollecita la radiazione di 5 atleti, 4 allenatori e un dirigente. Fra i nomi ci sono l’oro e il bronzo negli 800 metri ai Giochi di Londra 2012: Marya Savinova e Ekaterina Poistogova. «Quei Giochi di fatto sono stati sabotati», è la dura accusa che lancia la Wada.

Sullo sfondo, proprio come negli anni ’70, le manipolazioni dei test, per le quali il report dell’Agenzia, fondata nel 1999 dal Comitato olimpico internazionale (Cio), chiama in causa il responsabile del centro analisi di Mosca Grigory Rodchenko, che avrebbe fatto sparire, su richiesta del ministro dello sport Vitaly Mutko, ben 1.417 flaconi con i test incriminati. Mutko nega ogni addebito, invitando a dimostrare che eventuali violazioni sono della federazione e non dei singoli. Secondo la Wada però a Mosca ci sarebbe stato addirittura un laboratorio fantasma, cui consegnare migliaia di flaconcini con i prelievi per essere esaminati prima di affidarli, eventualmente ripuliti, al laboratorio ufficiale. E non c’è solo l’atletica in questo sgradevole remake del “mostro” di quarant’anni fa: sempre secondo il report della Wada, durante i Giochi invernali di Sochi, i servizi segreti avrebbero gestito direttamente i test sugli atleti russi.

Ma Mosca non ci sta a incassare accuse e minacce di squalifica. Per il capo dell’Agenzia medico-biologica russa Vladimir Uiva, il report ha «motivazione assolutamente politica. Non c’è alcun motivo di privare i nostri atleti delle medaglie, anche olimpiche, o squalificarli. Per farlo serve una enorme quantità di processi giudiziari, ma non penso che si arriverà a questo». Giù le mani dalle medaglie o vi trasciniamo in tribunale, insomma. «Solo dopo aver esaminato il rapporto potremo dare le nostre valutazioni e definire le nostre azioni», si limita invece a dire Nikita Kamaiev, direttore di Rusada, l’antidoping russo. Segue la vecchia regola del «meglio tacere», tanto in voga nello sport dell’Est quando a Berlino c’era ancora il muro.
©RIPRODUZIONE RISERVATA

pubblicato sui giornali locali del Gruppo Espresso il 10 novembre 2015

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