1960-2020: addio Diego, un bacio sulla fronte

Maradona: Napoli sotto chocCentinaia di napoletani all'esterno dello stadio San Paolo per ricordare Maradona (foto Ansa.it)

Un bacio sulla fronte. Come quello che si dà a un bambino, quello della buonanotte, quello dell’affetto, dell’amore incondizionato. Per me Diego Armando Maradona è stato tanto ma soprattutto quel bacio sulla fronte di Salvatore Carmando. Per anni ho visto quella scena, pochi secondi, sempre gli stessi e sempre irripetibili. Diego che prende il gagliardetto a centrocampo dal capitano avversario, si gira, fa quattro saltelli e poi si avvicina a Salvatore: il gagliardetto diventa silente testimone, nel suo passaggio da una mano all’altra, di un rito che quasi nessuno conosce nella sua interezza. Poche sillabe, dette all’unisono dai due. “Una preghiera”, confesserà dopo anni Carmando. Forse, non è necessario credergli perché quell’attimo resta mistico di suo. Poi il bacio, sulla fronte del massaggiatore-amico che abbassando di poco il capo per riceverlo fa quasi un inchino, la giusta riverenza al suo idolo. Un rituale tra scaramanzia, magia, ossessione, riconoscenza, amore: ci sono mille immagini di quel momento, tutte diverse ma come se girate in un piano sequenza mai interrotto, atto unico di un’opera d’arte e non esemplare preludio a una partita di calcio. Potete vedere quelle immagini anche mute, senza il sonoro d’epoca fatto di cori e applausi delle arene di tutta Italia. Quegli attimi non hanno suono, sono essi stessi musica e parole, strofe di pura poesia, tragedia e follia. Tutto in un solo gesto, in pochi istanti. Vissuti e mai recitati ma proprio per questo interpretazione sublime fuori dal tempo e dallo spazio.

Prima e dopo quel bacio tutto è pubblico di Diego. Il bene e il male, la gloria e la caduta, la miseria e la ricchezza. Fino all’impotenza di poter essere normale, perché Diego non poteva esserlo. E nessuno, dico nessuno, voleva che lo fosse. Ho visto e raccontato Maradona in quei sette anni che sono storia e non più cronaca. La prima volta mi ritrovai praticamente a pestargli i piedi, nel senso letterale del termine. Un sacrilegio, insomma. All’epoca giravo con un registratore grande (e pesante) quanto un mattone. Un’arma prima ancora che uno strumento di lavoro a forma di parallelepipedo. Per giunta addobbato con tanto di cuffie per essere sicuro che quello che sentivo si incidesse davvero sul nastro. Nel gestire la mastodontica apparecchiatura e formulare la mia prima domanda, mi ritrovai spintonato da decine di altre persone. Mi tenne lui con le braccia, evitandosi ulteriori pestoni. Rispose, e poi ancora e ancora. Ne venne fuori un’intervista, malgrado tutto. Era il 1984, al San Paolo nel mezzo di una partita organizzata dalla Croce Rossa per beneficenza. Diego partecipò senza batter ciglio. Sugli spalti centinaia di bambini e ragazzini delle scuole di tutta la Campania. Una festa.

Pensandoci adesso, quel giorno racchiude tutto quello che Maradona è per Napoli. Il più potente antidoto alla tristezza, allo sconforto, alla malinconia che noi napoletani abbiamo dentro da sempre, nostro malgrado. E lui, Diego, come noi a smitizzare il peggio nel tentativo estremo di svillaneggiare il male ballandogli in faccia, urlando, cantando, saltando, vivendo e sopravvivendo nonostante tutto. Diego è il più napoletano dei napoletani, l’unico al mondo ad aver sempre difeso un popolo oltre che una città. Riavvolgendo il nastro, ora che si è costretti a farlo, una storia così non può che essere stato un sogno. Ma se lo è stato, per favore non svegliateci.

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