Hackert, il genio della propaganda che amava Paestum

di Angelo Di Marino
Valli, golfi, pianure, fiumi, vulcani: è una cavalcata travolgente la mostra sulle opere di Jacob Philipp Hackert. Un susseguirsi di emozioni forti che esaltano lo sfarzo di un Sud ricco e solare, quello dei Borbone. Teatro dell’evento è la Reggia di Caserta, meta delle gite di noi meridionali sin dall’età scolare. Ma è proprio il fascino mai scontato del capolavoro architettonico di Vanvitelli che rende ogni visita diversa dalle precedenti. In scena, tra giardini, fontane, troni, stanze e biblioteche, c’è l’opera di Hackert, vedutista dal tratto severo e abile stratega della comunicazione di propaganda. Gioca con pochi colori che sembrano prendere vita nei personaggi, anonimi ma tutti riconoscibili, dei suoi quadri: soldati in feluca, lavandaie vocianti, mercanti mai trasandati e ancora nobili a caccia, dame di compagnia, portuali e marinai. Un caleidoscopio di contrasti e sensazioni che cattura il cuore prima che lo sguardo. Il tutto racchiuso in uno scrigno ineguagliabile. Quelle stanze della Reggia, dove gli ori cercano spazio tra i preziosi ebani tedeschi, sono uno spettacolo già al naturale, figuriamoci con i quadri di Hackert attaccati al muro.
La vita di Hackert somiglia tanto a quella del protagonista di un romanzo. Questo estroverso prussiano, iniziato già all’età di 11 anni alla pittura, aveva capito tutto degli italiani e, in particolare, dei napoletani. Dopo aver girovagato per mezza Europa (da Stoccolma a Parigi, transitando per Berlino, Marsiglia e Dover), il già 31enne Jacob Philipp sceglie Roma come sua dimora, affiancando gli studi al lavoro. Capisce che dalle nostre parti si vive bene, lontani dalle rigidità, climatiche e politiche, della sua Prussia ed a stretto contatto con lusso, buon vino e cucina raffinata. Ma il fiuto di Hackert lo porta a capire come, nell’Italia della seconda metà del ‘700, i mecenati rivestano ancora un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’arte. Sono loro, infatti, i commissionari di opere dal netto fine propagandistico. E il nostro tedescotto studia e dipinge, affinando tecniche e frequentando i salotti che contano.
Sbarca a Napoli nella primavera del 1770, insieme al fratello Johann. Scopre il fascino del Vesuvio (che ritrae nei “Montagnoli”), ma anche le bellezze salernitane. Tra Vietri e Cava de’ Tirreni trascorre un lungo periodo di convalescenza dopo una serie di misteriosi attacchi febbrili. Quei posti finiscono così in alcuni disegni ed acquerelli (“A Vietri”, “A La Cava”). Dopo essere rimasto orfano di padre, perde il fratello e per riprendersi dal dolore ritorna a Napoli nel dicembre del 1773. Giusto in tempo per ritrarre un’eruzione del Vesuvio.
L’Italia gli piace troppo, perlustra palmo a palmo il Belpaese e perfeziona le sue conoscenze donando a Pio VI una veduta di Cesena, città natale del Papa. Inutile dire che il pontefice ricambia con la sua protezione ed alcuni incarichi prestigiosi (e ben remunerati). E’ ormai italiano a tutti gli effetti quando punta di nuovo al Sud, tastando con i cinque sensi il fascino di Paestum e Palinuro. Principi e regine continuano a commissionargli vedute e gouaches. Non mancano anche clienti russi come i Romanov, ai quali l’Italia sta talmente nel cuore da fare incetta di tele che immortalano la Campania Felix di quell’irripetibile periodo.
Ma è l’incontro con Ferdinando IV di Borbone a cambiare la sua vita. Il re lo assume come vero e proprio curatore della sua immagine. Dal 1782 non si contano più le sue opere. Ferdinando lo accompagna in lungo e in largo per il regno, guidando la sua mano come solo un abile stratega della comunicazione sa fare. Il politico utilizza l’artista per fare propaganda e per esaltare il suo governo, la sua ricchezza, la potenza di eserciti e flotte. La produzione si intensifica a tal punto che Jacob fa assumere anche l’altro fratello, Georg. Lui è primo pittore di corte, l’altro viene scritturato come incisore ufficiale dei Borbone.
A questo punto la carriera di Hackert, già benedetta dal Papa e dai nobili dell’Europa che conta, diventa sfolgorante. Incontra Goethe, frequenta Lord Hamilton e pennella con abilità, prima politica e poi artistica, la forza dei Borbone. Il porto di Salerno, l’oasi di Persano, ancora Cava e Paestum e poi tutti i porti del Regno, scene di caccia, di mietitura, gouaches di giardini e vedute delle perle del reame da Napoli alla Sicilia, passando per Puglia e Calabria. Ferdinando IV è al culmine della sua parabola, accoglie diplomatici, mercanti, nobili e politici, oltre che amici e nemici, esibendo alle pareti della Reggia i quadri di Hackert, veri e propri manifesti della sua grandezza. Quelle tele affascinano gli ospiti al primo impatto, ma intimidiscono e quasi terrorizzano ad una seconda occhiata. Gli eserciti armati e pronti al fuoco, le grandi navi da guerra schierate nei moderni porti del Regno, le battute di caccia austere e poderose, le campagne rigogliose di grano e le bellezze di Vietri come di Sorrento, altro non sono che il messaggio propagandistico che Hackert realizza seguendo le indicazioni di Ferdinando, invero poco acculturato ma in compenso intelligente e arguto. Ne viene fuori una produzione quasi senza pari in Europa. La tecnica del prussiano-napoletano cede spesso il passo alla logica politica, con le proporzioni talvolta sbagliate per dare maggiore risalto alle figure di soldati, cannoni e carceri che risultano ingranditi rispetto alla prospettiva. Errori voluti, figli legittimi di una logica di governo e praticati alla faccia degli stili e degli insegnamenti classici.
Nel 1796, però, iniziano i guai. Hackert cede il suo appartamento di Caserta a due vecchie zie di Luigi XVI, costrette a lasciare la Francia di tutta fretta e senza troppi bagagli. Qualcosa scricchiola, le alleanze dei Borbone vacillano. Nel 1799 Ferdinando entra in guerra con i francesi e a Napoli scoppia la rivolta dei Lazzaroni. La capitale finisce nelle mani dei francesi che, piccolo ma non trascurabile particolare, sono amici di Hackert. E’ per questo che il pittore riesce a rimanere in Campania ancora per un paio di mesi. Poi fugge e, viaggiando in rocambolesca clandestinità, si rifugia a Livorno. Scrive lettere su lettere a Goethe, peraltro amichevolmente ed intellettualmente corrisposte. La campagna toscana è lontana anni luce dai potenti salotti dei reali. E’ lì che si innamora della terra. Dipinge e coltiva i campi, scrive la sua biografia. Sarà pubblicata postuma nel 1811, quattro anni dopo la sua morte a San Pietro di Careggi, a due passi da Firenze.
Hackert diventa adesso la scusa per la solita gita a Caserta. A zonzo tra appartamenti storici, giardini e tele sembra quasi di sentire l’allegro vociare dei Borbone. Lazzaroni ma felici.

pubblicata su “la Città” dell’1 marzo 2008

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