Un mito. Con il quale vorresti parlare di schiacciate, vittorie, derby, record di punti (87 fatti in una sola partita!), Olimpiadi, maglie azzurre, profumo di parquet. Invece incroci Carlton Myers, icona senza tempo della nostra pallacanestro, e sbatti il muso contro la guerra. Quella in Ucraina che ha fatto irruzione nelle nostre vite, trasformandosi presto in quotidianità, sperando non prenda mai forma di assuefazione.
Myers, allora anche i nostri sono tempi di guerra.
«Oggi parliamo dei conflitti in Ucraina, purtroppo. Ma attenzione, perché ce ne sono quasi 900 di guerre sparse in tutto il pianeta. Magari alcune sono meno appariscenti di altre. Sono secoli che è così, finché l’uomo deciderà di ignorare l’unico che dà la pace».
Si spieghi meglio.
«L’uomo inneggia alla pace senza sapere, senza capire, senza conoscere quale sia la vera pace. Perché per avere la vera pace bisogna conoscere il principe della pace. E io da credente evangelico ho conosciuto il principe della pace. Ho fatto di Gesù il fondamento sui cui poggia la mia vita dal punto di vista familiare ma anche lavorativo, sociale. Come fai a parlare di pace se tieni fuori colui l’unico che la può dare?».
Sembra però una storia già sentita…
«Sono secoli, millenni che è così. Giusto che si parli di pace però bisogna conoscere colui che la dà. Spero di farmi capire anche se è un argomento particolare anche se piuttosto semplice nella sua particolarità».
Diciamo che è l’eterna lotta tra il bene e il male, senza buttarla troppo sul filosofico.
«Se il genere umano si ricordasse tutti i giorni del Signore allora avremmo un mondo migliore. Purtroppo il male è insito nell’animo umano».
Vede ombre quindi, tante e scure pare di capire.
«Non è pessimismo il mio, ma se andiamo indietro nella storia capiamo che non c’è mai stato un miglioramento. Sono pragmatico, mi baso su dati oggettivi. Spero di sbagliarmi, ovviamente».
Lo speriamo, certo. E visto che invece di parlare di sport siamo entrati in un tunnel, togliamoci il pensiero e parliamo pure di Covid. I palazzetti e gli stadi vuoti non era certo un bel vedere…
«Incredibile, anche perché penso al bisogno mio di giocare avendo sugli spalti un pubblico sia amico che avversario: non so come avrei fatto sinceramente. Perché è come andare un matrimonio senza la fidanzata, magari estremizzo ma il concetto è quello».
Si fa fatica adesso a riprendere quota, serve rieducare gli appassionati a tornare negli stadi, nei palazzetti.
«C’è stato un grande calo di presenze, direi anche un certo disinnamoramento. E per questo molti sport ne hanno pagato le conseguenze. Molti non sono tornati a vedere le partite, adesso che si può speriamo che riprendano ad andare gradualmente. Un po’ come il calcio che però gode di un affetto talmente radicato che non perderà mai fascino. Le altre discipline invece ne hanno risentito, mi viene in mente la pallavolo».
A proposito di palestre e palazzetti, ma quanto è difficile fare sport nel nostro Paese?
«L’Italia non ha impianti, c’è da mettersi le mani nei capelli se pensiamo ad altre nazioni a noi vicine come Francia, Germania e la stessa Spagna. Mancano impianti a norma, avanzati tecnologicamente. Quelli che ci sono spesso sono fatiscenti. Per le altre discipline c’è difficoltà, non ci sono le palestre. Faccio l’esempio di Rimini, la mia città, dove c’è grande difficoltà a trovarne una. Bisogna migliorare».
Eppure vinciamo medaglie e titoli, da Tokyo in poi la scia d’oro non si è più interrotta.
«Questo significa che sia pure in presenza di queste difficoltà riusciamo a ottenere dei risultati, questo ci fa ben sperare. La scorsa estate è stata una stagione di grandi successi, davvero indimenticabile».
In mezzo c’è anche la pallacanestro. Alle Olimpiadi la squadra di Meo Sacchetti si è difesa bene, quest’anno invece c’è da qualificarsi ai Mondiali e poi giocare gli Europei a Milano.
«Prima dei Giochi se ci avessero detto che saremmo arrivati quinti avremmo fatto una festa come al Carnevale di Rio. Ci eravamo illusi con la vittoria contro la Serbia che ci ha permesso di staccare il biglietto per Tokyo, forse esaltandoci troppo. Mantenendo però i piedi per terra, alle Olimpiadi è andata bene. Con la Francia ce la siamo giocata per esempio. Certo, sulla strada verso i Mondiali poche settimane fa abbiamo perso con l’Islanda, recuperando poi nella gara di ritorno in casa…».
Non è stato proprio un bel risultato quello, diciamocela tutta.
«Vero, però secondo me il problema è un altro».
Quale?
«Il nostro ambiente sembra troppo soggetto agli umori. C’è questa esaltazione e questa depressione che ci accompagnano, risultati che vengono troppo esaltati e poi delle disfatte mentali se perdiamo con l’Islanda. Ci vuole un po’ più di equilibrio, sarebbe meglio secondo me».
Questione di testa, insomma. La sua quanto è cambiata in questi anni?
«A meno di vent’anni ero già molto gettonato, molto ambito perché ero praticamente all’apice della mia carriera, anche se ancora molto giovane».
Una stella. Che rifiutò anche la Nba per restare in Italia. Il Paese di sua madre che è diventato il suo quando era un bambino…
«Che vogliamo parlare di inclusione, allora?».
E parliamone, partendo magari dallo sport…
«Lo sport per me è stata quella realtà che in qualche modo ha abbattuto i pregiudizi, le difficoltà dovute al colore della pelle, al ceto sociale, alla cultura diversa».
Qualche anno nel frattempo è passato, la situazione è migliorata?
«C’è ancora molto da fare. Lo stiamo vedendo, inutile far finta di niente».
La politica del girarsi dall’altra parte fa ancora parte del mondo.
«Lo sport è quello che unisce tutto e tutti, abbiamo un esempio di eccellenza che è il Sudafrica di Mandela. Ancora non basta, penso ai tentativi spesso a vuoto di grandi sportivi nel sensibilizzare la gente su alcune situazioni critiche. Molto si è fatto ma continueranno a esserci situazione di disagio e difficoltà».
Bisogna crederci e crederci ancora…
«Lo sport è uno strumento potente che può far riflettere tutti quanti».
L’integrazione alle volte passa anche attraverso azioni semplici ma efficaci. Lei si occupa di camp per ragazzi, quelli che coniugano educazioone e divertimento.
«Vero, il progetto risale al secolo scorso. Ho fatto camp dal 1992. Erano solo cestistici, non organizzavo ma presenziavo come star. Autografi, foto e quant’altro mentre altri organizzavano. Confesso che non avevo molta voglia di presenziare, lo confesso: all’epoca era quasi una scocciatura. Poi arrivavo lì e vedevo questi ragazzini e mi facevo coinvolgere. Così diventava un piacere, a dispetto del mio carattere un po’ burbero, schivo».
Adesso invece…
«Da 7 anni organizzo questo camp dove è subentrato il Gruppo Crai, un marchio storico nel settore della Distribuzione Moderna presente in tutta Italia. Un progetto che partiva da Roma e che quest’anno si apre a tutto il territorio con due camp nella Capitale e uno anche a Cagliari e Torino e che l’anno prossimo coinvolgerà altre città. Crai è un simbolo del food, un binomio perfetto con lo sport».
Leggendo il programma di questa sua iniziativa non c’è solo il basket però…
«Assolutamente, si va dal tiro con l’arco al badminton. A causa del Covid, abbiamo dovuto ridisegnare il quadro delle discipline per ottemperare alle regole. La sorpresa è che queste discipline piacciono ai ragazzi e per questo che le abbiamo mantenute, integrandole con le altre».
Della serie l’importante è fare uno sport, a prescindere da quale sia.
«In realtà i ragazzi scoprono non solo di essere dotati per esempio nel tiro con l’arco ma anche che si divertono di più. Da anni abbiamo anche bambini con disabilità, soprattutto cognitive. Sono stati riscontrati grandi risultati, ce lo dicono le famiglie e soprattutto i medici che hanno in cura questi ragazzi. Una settimana di sport vale più di alcuni mesi trascorsi altrove. I ragazzi, sia che pratichino a livello ludico che a quello agonistico, devono innanzitutto divertirsi, altrimenti poi succede che l’istruttore che non fa divertire il suo allievo alla fine è lo stesso che lo costringe a rinunciare, a smettere. E questo è un peccato. Molti bambini magari trascorrono ore in casa a scrollare gli smartphone anziché fare uno sport, uno qualsiasi. E questo è colpa nostra».
Uno dei suoi ragazzi del camp le chiede come si diventa campioni. Guardandolo negli occhi, cosa gli risponde?
«Divertiti che poi arriva il resto, questo gli direi». —
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Intervista pubblicata su Specchio settimanale de La Stampa del 27 marzo 2022
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