di Angelo Di Marino
Mezza Italia non vuole i rifiuti di Napoli. L’altra mezza finge solidarietà ma preferirebbe evitare la rogna. Il centrodestra scarica sul sindaco De Luca le colpe della mancata realizzazione del termovalorizzatore di Salerno. Caldoro e Cirielli riaprono la discarica di Macchia Soprana. Il ministro Carfagna fa pace con Berlusconi ma non con Cosentino. L’Università è a pezzi e la protesta sfiora l’eclatanza del ‘68, quando finì davvero male. Galleggiamo, insomma, in un mare di liquami, polemiche, veleni e debiti.
Un anno fa, scrivevamo e parlavamo dell’assenza in Campania di una classe dirigente all’altezza dei problemi da affrontare. Si dibatteva, proprio di questi tempi, sulle candidature alla Regione con De Mita e Bassolino a fare da ras nel gioco delle alleanze, non avendo nessuno che gli si contrapponesse. Sappiamo poi come è andata a finire.
Stesso discorso adesso, quando ad incombere sono le elezioni a Napoli e Salerno. Bassolino è uscito di scena (?), ovviamente De Mita è sempre lì, così come tutti i colonnelli del derelitto centrosinistra e del turbolento centrodestra che fanno il bello e il cattivo tempo. O meglio, fanno talmente tanto movimento che alla fine tutto resta fermo. Immobile. Perché la nostra terra è impantanata, frenata ancora una volta dalla non gestione che ripercorre gli stessi criteri del passato. E non è colpa di Caldoro o di Cirielli o di De Luca. Ma della politica che si contorce su se stessa, al sol scopo di autoalimentarsi e celebrare il quotidiano rito del potere.
Prendete il caso del decreto sui rifiuti che il governo ha partorito in piena crisi. Scritto e riscritto nel tentativo di accontentare le varie fazioni in cui è diviso il Pdl, alla fine non fa altro che rendere ancor più complicata la gestione di quanto già non lo sia. Il tutto a meno di un anno da quella che era stata dichiarata come la definitiva chiusura dell’emergenza.
Il testo rimbalzato tra Quirinale e Palazzo Chigi è il chiaro esempio di come in Italia il sistema politico-amministrativo parta da basi decisamente sbagliate. Arrivando a conclusioni che non sono da Paese evoluto. Da noi, e non certo da adesso, chi è chiamato a ricoprire incarichi di responsabilità negli enti locali risponde prima di tutto a logiche partitiche, relegando giocoforza a ruoli secondari la gestione del bene comune e gli interessi di una comunità. Insomma, un sindaco o un presidente di Regione o Provincia non viene giudicato per quello che ha fatto nel suo percorso amministrativo, bensì per quanti voti è riuscito a mettere in carniere. Ed è qui che, da sempre, il sistema va in corto circuito. In questo modo saranno sempre preminenti gli interessi privati della politica su quelli collettivi della gente.
Così come è buona abitudine, ad ogni cambio di mano, radere al suolo tutto quello che i predecessori di turno avevano messo in piedi. Senza neanche lontanamente prendere in considerazione che magari una o due cose potrebbero anche essere buone e servire alla collettività. Alla Regione così fece Bassolino dopo Rastrelli, così sta facendo Caldoro dopo Bassolino. Per non parlare dei governi nazionali con Prodi che cancellò tutto il pregresso del Cavaliere e Berlusconi a render pan per focaccia.
Un gioco, quello di ripartire da zero, che potrebbe andar bene laddove sostenuto da una ragion di stato. E che invece viene alimentato solo dalla rivalità e dalla logica dell’appartenenza.
Se il metro di valutazione continuerà ad essere questo, non andremo lontano. Cosa dovrebbe accadere, allora, per invertire la rotta? Innanzitutto il cambiamento della legge elettorale, in modo da restituire ai cittadini il diritto di scegliere nomi e cognomi da portare in Parlamento. E poi la rottamazione bipartisan di buona parte della nomenclatura che, nel migliore dei casi, risale a trenta e quarant’anni fa. A sparigliare potrebbe essere Montezemolo, incarnante un elemento di discontinuità da non sottovalutare, anche se dal peso specifico ed elettorale difficilmente quantificabile. Il rischio però è quello di ripercorrere le esperienze dei governi di salute pubblica e di passare dal bipolarismo incompiuto alla frittata perfetta.
Sperare, quindi, sembrerebbe utopia. Invece è solo una questione di classe. Dirigente.
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pubblicato su “la Città” del 28 novembre 2010
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